Roma, 25 febbraio- Depistaggio delle indagini, omesse comunicazioni ai magistrati, arresti solo di clan avversari, sembrano i reati di un avvocato della ‘Ndrangheta o di un politico colluso. Invece a finire in manette sono due alti esponenti della polizia di stato, che avrebbero dovuto condurre le indagini sui clan calabresi. Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò, rispettivamente ex capo e vice della squadra mobile di Vibo Valentia erano pedine in mano alla famiglia Mancuso, con cui comunicavano tramite l’ avvocato della famiglia, Antonio Galati. Proprio quest’ultimo procurava le informazioni sulle indagini in corso, garantendo di fatto l’incolumità del boss della ‘Ndrangheta Pantaleone Mancuso, sarebbe stato sempre il legale a deviare le indagini dai Mancuso al gruppo mafioso dei piscopisani, clan emergente, e acerrimi nemici dei suoi assistiti. Secondo l’inchiesta, condotta dal Procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, l‘ex capo e il vice della Mobile avrebbero omesso lo svolgimento di qualsiasi attività investigativa su tale sodalizio criminale, in palese violazione dei propri doveri di ufficio. Inoltre Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò non trasmettevano ai magistrati le segnalazioni sulla possibile esistenza di reati e concentravano le attività investigative del reparto da loro diretto nei confronti di un cartello di cosche avverse ai Mancuso. Proprio la corruzione dei due dirigenti della polizia avrebbe portato ai dissapori interni con i carabinieri, che operavano sullo stesso territorio e in più di un’occasione avevano notato l’atteggiamento accomodante dei due dirigenti.