Roma, 12 marzo – Ronin 47, in uscita il 13 marzo nelle sale italiane, avrebbe anche potuto essere un bel film. Il colossal americano prende spunto, e titolo, da uno dei pilastri della tradizione giapponese: la vicenda dei quarantasette Samurai di Asano Naganori, rimasti “orfani” del loro padrone costretto al seppuku (il suicidio rituale giapponese) per aver attaccato il segretario di protocollo dello Shogun (imperatore), Kira Yoshinaka, il quale lo aveva insultato.
Diventati ronin, cioè samurai senza padrone e costretti a vivere da esiliati, i quarantasette pazientano per ben due anni, pianificando la vendetta contro Kira per riscattare l’onore del proprio maestro, consci di compiere un atto folle ma necessario, che in ogni caso li porterà alla morte. Infatti, nonostante vendicando il loro padrone avessero ottemperato ai principi del bushido (il codice dei samurai), dopo l’uccisione di Kira furono a loro volta condannati al seppuku per aver sfidato l’autorità imperiale.
I ronin divennero però eroi popolari e da allora furono oggetto di un vero e proprio culto tramandato dalla tradizione culturale giapponese nella letteratura e nelle rappresentazioni teatrali. La loro storia divenne quella dei Quarantasette gishi, cioè uomini retti, e si impose come manifestazione dei massimi valori nazionali giapponesi.
Il film invece è un’altra cosa. Come già fatto con la tradizione storica greca in 300, Hollywood si impadronisce della vicenda dei ronin svuotandola del forte valore etico e morale che la caratterizza e la propone al pubblico occidentale nella versione che più gli piace: un manipolo di eroi combattono la loro sfida mortale in un mondo attraversato da forze demoniache, guerrieri della foresta con poteri sovrannaturali, bestie mitologiche e incantesimi e negromanzie di vario tipo.
Tuttavia ciò che infastidisce non è tanto la riproposizione, la fantasticheria o la spettacolarizzazione, quanto la mistificazione. La storia dei quarantasette ronin celebra i valori di onestà, lealtà, giustizia, pietà, dovere e onore contenuti nel bushido, Ronin 47 costruisce uno scenario dove tutto questo si colloca sullo sfondo poiché il primo piano è occupato dalla figura di Kai (Keanu Reeves), mezzosangue euro-giapponese odiato da tutti, tranne che dal nobile Asano e dalla figlia, che in seguito diventa il perno e l’idolo della riscossa samurai. La storia collettiva di un gruppo di eroi nazionali giapponesi viene accostata alla vicenda dell’uomo solo contro il male tanto cara al cinema americano, condita con la spruzzata di un amore impossibile e la certezza di una morte, quella di Kai, della quale si stenta a capire il senso, poiché durante l’intera narrazione aleggia più la sua alterità ed estraneità “culturale” rispetto a quella giapponese che un vero tentativo di aggregazione.
Una americanata insomma, che impedisce inoltre la riflessione seria e meditata su una delle differenze antropologiche peculiari tra la cultura giapponese e quella occidentale, intorno alla quale si potrebbe discutere magari attraverso un bel film.
Ci si chiede che bisogno abbia Hollywood, se si vogliono fare film fantasy, di sfasciare le tradizioni culturali degli altri. Forse perché non ha abbastanza fantasia?