Roma, 19 luglio 2014 – Paolo Borsellino, nato a Palermo il 19 gennaio 1940 e morto nella città natale il 19 luglio 1992, è stato un magistrato italiano, simbolo della lotta alla mafia in Italia e a livello internazionale, insieme al suo collega e amico Giovanni Falcone, assassinato due mesi prima.
Paolo Borsellino, figlio di Diego Borsellino e Maria Pia Lepanto e fratello maggiore di Salvatore e Rita, è cresciuto nel quartiere La Kalsa, di origini arabe, e proprio lì ha conosciuto Giovanni Falcone (di seguito il link sulla biografia di Giovanni Falcone http://www.newsgo.it/giovanni-falcone-morto-strage-capaci-23-maggio-1992/ ). Dopo aver concluso le superiori al liceo classico Giovanni Meli si è iscritto a Giurisprudenza, conseguendo la laurea con il massimo dei voti.
Pochi giorni dopo ha perso il padre, trovandosi ad affrontare nuove responsabilità familiari: fino alla laurea in farmacia della sorella si è impegnato a mantenere l’attività del padre e nel frattempo ha studiato per il concorso in magistratura, poi conseguito nel 1963.
Sono stati l’amore nei confronti della sua terra e la profonda fiducia nella giustizia e nel cambiamento a convincerlo a diventare magistrato, ma il suo impegno non l’ha mai portato a trascurare la famiglia. Nel 1968 ha sposato Piraino Leto, figlia del magistrato Angelo Piraino Leto, con cui ha avuto tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta.
Dopo aver lavorato in varie città, come Enna, Mazara del Vallo e Monreale, nel 1975 si è trasferito a Palermo insieme a Rocco Chinnici, e in quella città ha iniziato la sua eterna battaglia contro la mafia, che l’ha portato poi portato alla morte.
Insieme al Capitano Basile ha lavorato alla prima indagine sulla mafia e nel 1980 il suo lavoro ha portato all’arresto di sei membri dell’organizzazione criminale. Tuttavia lo stesso anno è stato ucciso dalla mafia il Capitano dei Carabinieri Basile, evento che gli ha causato l’assegnazione della protezione della polizia e che inevitabilmente ha cambiato le abitudini familiari.
Il 5 marzo 1980 il Consiglio Superiore della Magistratura gli ha conferito la nomina a magistrato d’appello perché dotato “di ottima intelligenza, di carattere serio e riservato, dignitoso e leale, dotato di particolare attitudine alle indagini istruttorie, definisce mediamente circa 400 procedimenti per anno” e negli anni si è distinto “per l’impegno, lo zelo, la diligenza, che caratterizzano la sua opera“.
Negli anni successivi ha collaborato con Giovanni Falcone e Rocco Chinnici, ricercando i legami tra mafia e poteri politici-economici in Sicilia e in Italia. Chinnici ha poi formato un Pool Antimafia di Palermo, di cui hanno fatto pare Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Chinnici nel 1983 è stato ucciso da una bomba nella sua auto e al suo posto è subentrato Antonino Caponnetto. Nel frattempo le ricerche hanno portato dei risultati: nel febbraio del 1986 ha avuto inizio il Maxiprocesso contro la mafia, che è durato fino alla fine del 1987 e ha portato all’incriminazione di 475 mafiosi, la maggior parte condannati all’inizio del 1992, dopo la fase finale di appello.
Proprio negli anni del Maxiprocesso è continuato lo spargimento di sangue, che ha portato all’uccisione del Commissario Montana e di altre persone importanti nelle indagini sulla mafia. Inoltre l’opinione pubblica ha iniziato a criticare i magistrati, le loro scorte e il ruolo interpretato da queste figure.
Nel 1986 è diventato capo della procura di Marsala, dove ha continuato la sua battaglia contro i boss mafiosi; l’anno successivo Caponnetto ha dato le dimissione per malattia e Borsellino si è reso protagonista di una protesta contro la mancata nomina di Falcone a capo del Pool Antimafia: “si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all’Ufficio“, “hanno disfatto il pool antimafia“, “hanno tolto a Falcone le grandi inchieste“, “la squadra mobile non esiste più“, “stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa“. Per queste dichiarazioni, rilasciate sui giornali, in televisione, nei convegni, ha rischiato un provvedimento disciplinare e solo il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga è intervenuto in suo appoggio chiedendo di indagare sulle sue affermazioni per accertare la situazione nel Palazzo di Giustizia di Palermo.
Tornato a Marsala è stato affiancato da nuovi magistrati, spesso alla prima nomina, che l’hanno affiancato con la stessa convinzione dei predecessori, portando dei risultati sulle indagini riguardanti i rapporti tra mafia e Stato. La strategia di Paolo Borsellino è stata quella di dare importanza fondamentale ai pentiti, controllando più volte le loro dichiarazioni, per poi ricercare riscontri e intervenire una volta ottenute le prove.
“L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati”.
È stato da quel momento che gli attacchi a Borsellino sono diventati incessanti. Intanto è iniziato il dibattito sulla possibilità di istituire la Superprocura e chi porre a capo di tale organismo. Falcone, trasferitosi a Roma, ha cercato il sostegno delle cariche dello Stato e Borsellino allo stesso tempo è tornato a Palermo, dove è diventato Procuratore Aggiunto.
“Mi uccideranno, ma non sarà la vendetta della mafia, la mafia non utilizza l’omicidio per vendicarsi. Forse la mafia fisicamente mi ucciderà ma coloro che effettivamente ordineranno il mio assassinio saranno altri”.
Successivamente a Roma è stata istituita la Superprocura e nel maggio del 1992 Falcone ha finalmente ottenuto i numeri per diventare Superprocuratore: un trionfo per i due magistrati e amici, che però ha visto una tragico finale dato che il giorno successivo, Falcone è stato ucciso insieme alla moglie nella cosiddetta Strage di Capaci (di seguito il link sulla Strage di Capaci http://www.newsgo.it/la-strage-di-capaci-il-23-maggio-92/ ).
Un dolore immenso per Paolo Borsellino, profondamente legato a Falcone. Dopo poco gli è stato offerto il posto dell’amico, rifiutato per continuare a combattere la mafia da vicino, pur consapevole del destino che l’avrebbe atteso da lì a poco tempo.
Ha subito cercato di collaborare alle indagini sull’attentato di Capaci, che hanno portato a far parlare alcuni pentiti, finché Cosa Nostra ha finalmente cominciato ad avere sembianze conosciute. Fino all’ultimo ha lottato per ottenere la delega per ascoltare il pentito Mutolo, arrivata il 19 luglio 1992.
Proprio il 19 luglio Borsellino è andato a Villagrazia per rilassarsi; dopo pranzo è tornato a Palermo per accompagnare la madre a una visita medica, ma l’esplosione di un’autobomba in Via D’Amelio ha ucciso lui e gli uomini della sua scorta, composta da Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina.
Negli anni a seguire alcuni ex colleghi del magistrato hanno affermato che poco prima della sua morte ha esclamato: “Un amico mi ha tradito, un amico mi ha tradito”, aumentando i misteri intorno alla sua morte. Un punto poco chiaro è dato dalla misteriosa scomparsa della sua agenda rossa, dove era solito prendere appunti.
Il fratello Salvatore ha più volte affermato che si è trattato di un omicidio di Stato: “Mio fratello sapeva della trattativa tra mafia e Stato, per questo è stato ucciso”.
Nel corso degli anni sia lui che Falcone hanno sempre cercato il confronto con la gente, in particolar modo con i giovani, forza motrice del cambiamento della mentalità della gente, che ha cercato di incontrare (attraverso dibattiti nelle scuole) fino alla fine della sua vita: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”(Paolo Borsellino).
La tragedia del suo assassinio, come quella di altri colleghi impegnati nella lotta contro la mafia, non va dimenticata per il semplice fatto che l’obiettivo di una vita, la profonda dedizione al lavoro svolto, rappresentano ancora oggi un’opera incompiuta, dato che per forze maggiori nessuno ha potuto sconfiggere definitivamente Cosa Nostra.