Nel mese di ottobre, al Teatro Brancaccio di Roma, è stato messo in scena lo spettacolo Dignità autonome di Prostituzione, per la regia di Luciano Melchionna. Si tratta della rappresentazione di un vero e proprio “Bordello in Stile Italiano”. Lo spettatore fa il suo ingresso in questa casa della prostituzione dell’arte, paga il suo biglietto e gli vengono immediatamente consegnati alcuni “Dollari”. Questi saranno necessari alla compravendita delle performance inscenate dagli attori, i quali prostituiranno così i loro monologhi. Una prostituzione dell’arte che si riflette sia nei costumi di sotto borgo che nei personaggi tratti dalla crudeltà della strada. Caratteri e dibattiti di natura sociale mescolati in una miscellanea di caratteristiche psicologiche che diventano quasi una seconda pelle per l’attore. Un’atmosfera caotica che non smette di stupire i più curiosi, tanto è vero che la piéce è soltanto una delle molte repliche.
I primi successi Dignità autonome di Prostituzione li ottiene nel 2007 al Teatro Franco Parenti di Milano, al Teatro Quirino, al Teatro Italia e Castello della Cervelletta di Roma. Esaltante risultato a Napoli: ben 18 repliche solo nel 2011 al Teatro Bellini. Da Roma si spostano oggi nuovamente a Nord, con l’intento di abbattere anche le frontiere della Torino “DaBBene“.
Luciano Melchionna è il regista dello spettacolo Dignità Autonome di Prostituzione, frutto dell’omonimo format ideato da Betta Cianchini e Melchionna stesso. Quest’ultimo si è diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma nel 1989 e da sempre insegue la sua passione un po’ espressionista, che lo ha trascinato verso uno stile “borderline” come dimostra la sua prima commedia “Rimozione forzata”, segnalata al Premio IDI ’96 e messa in scena in forma di lettura scenica da Lorenzo Salveti al Festival di Trieste.
Abbiamo assistito con estrema curiosità alla messa in scena di Dignità autonome di Prostituzione qui a Roma. Di seguito le nostre impressioni.
Era come stare sotto gli occhi di tutti, sul tappeto scintillante di una nuova Brooklyn. La città, per chi non la conoscesse, divenne famosa soprattutto per le folli interpretazioni improvvisate in quei teatri allestiti a garage e a sudicie bettole. Una rappresentazione del genere non può che aprire inesorabilmente gli occhi alla finzione più reale di tutte. Sprezzante per amarezza, si apre così questo telo ricamato dalle mille sfumature cruente della notte, la quale alterna con goliardia momenti di poesia a momenti drammatici di vita, chiusi sotto gli abiti da semplice prostituta.
Si concede a una riflessione persino il direttore artistico del Brancaccio, Alessandro Longobardi, uomo dagli ottimi modi e dalla raffinata cultura: “Non posso essere obiettivo. Resto influenzato dall’averlo vissuto, non solamente visto. Ogni giorno alle 18.00 erano tutti in sala prove, ogni dettaglio veniva curato puntigliosamente. Un lavoro davvero eccezionale. Conosco tanti arrangiamenti simili, che prendendo origine da questi temi vengono inscenati nelle case chiuse. Nulla tuttavia di paragonabile a questo. E’ un genere che fa cultura, che si diffonde come una piaga perché invoglia la gente comune a partecipare. Come ho detto, però, sono influenzato. Il format è unico – prosegue – e non può che essere sostenuto in quanto tale. Coinvolge e cede in garanzia buoni pensieri e ottime parole in bocca a chi ascolta. I testi sono ricchi di critica sociale“.
Insomma, un’affascinante atmosfera che accompagna come una madre lo spettatore a teatro, rendendolo casa di un ambiente tutto da inscenare. Non è cosa da pochi: piccoli tocchi di classe, i biglietti stampati in dollari, la libera scelta di cui gode lo spettatore davanti all’invito di un attore nella sua “camera privata”.
Ci si trova davanti e tra motociclisti, pantofolai, militari, donne dalla cera screpolata e personaggi orientali e non si può non notare la figura di Antonella Elia, attrice e conduttrice che ebbe modo di lavorare negli anni ’90 nei più celebri varietà italiani e nelle trasmissioni di Mike Bongiorno, come “La ruota della fortuna” e “Bravo Bravissimo”. Nel 2005 iniziò a interessarsi di tematiche sociali e oggi si dedica in prevalenza al teatro, la sua passione originaria.”Una delle migliori“, sostiene il pubblico che l’ascolta letteralmente affascinato. Lei, insieme agli altri attori presenti, non fanno che raccogliere lodi per tutta la durata dello spettacolo.
Eppure, parte del pubblico che rimane quasi nascosto nelle ultime file, sembra dimostrare un certo “dissapore”. “C’è un problema – sostiene un ragazzo sulla ventina – Non si può negare che siano stati scelti bravissmi attori e che l’atmosfera sia stimolante, ma hanno sbagliato qualcosa. Non apprezzo molto la decisione di mescolare temi di critica di altissimo livello con battute su Berlusconi“. Non mancano, dunque, le critiche nel mentre della rappresentazione, e già questo fa capire che non siamo davanti al “classico teatro”. Si accendono focolai di dibattiti che, poi, risultano estremamente coinvolgenti e noi siamo stati testimoni delle voci di chi, oltre la scena, ha letto anche le immagini proposte in modo differente.
Lo spettacolo inizia con un’atmosfera di presentazione estremamente assuefante, attraverso un prelibato invito verso l’ingresso a teatro. Ogni abito racconta una storia e per ognuna, come è ovvio che sia, il racconto di una critica. Fila e fila di giovani a seguito dei narratori contrattano per il prezzo di un monologo. Sono scene che colpiscono, soprattutto se si tiene conto che il teatro, in tempo di crisi, è stereotipo del deserto. E si è andati avanti anche al di fuori della piéce, riprendendo quello stile che non può non ricordare quasi un’evoluzione di quello di Goldoni. E’ caratteristica del grande autore della Commedia del Teatro ricordare in quasi ogni sua opera la morale più personale, sottolineandone sempre nelle premesse il ruolo pedagogico dei caratteri. Vengono in mente, assistendo allo spettacolo di Melchionna, molte di quelle immagini che catturano l’attenzione durante la lettura di “Norme per lo spettacolo, norme per lo spettatore” [n.d.r. testo risultato del seminario promosso dalla Scuola Dottorale in Filologia Moderna e Letterature Comparate, tenutosi a Firenze nel 2009].
Al di là delle prospettive inimmaginabili di successo in cui un’idea tanto geniale si concretizza, c’è da sottolineare la nota disarmonica che purtroppo esiste anche qui. Era evidente quasi a tutti che questo tipo di teatro fosse stato concepito per attirare la gente, coinvolgerla e farla divertire, ma soprattutto un tentativo di “insegnamento”. Insegnare a guardare con gli occhi di un bambino la realtà nella sua illogicità più profonda, insegnare a cogliere e catturare gli istanti di giustizia per farli propri e non soffermarsi alle semplici ideologie comuni. Imparare il rispetto attraverso la risata con un criminale o un emarginato. Purtroppo non siamo certi, dalle risposte insicure ricevute da alcuni spettatori a cui abbamo chiesto il parere, che questo messaggio sia stato realmente colto.
L’arrangiamento, per quanto puntiglioso e degno di lodi, ha reso il tutto superbo nei modi a discapito, però, dell’esaltazione dei contenuti. Il gran finale, secondo molti, aveva un che di stonato e “mancante” rispetto a quanto ci si sarebbe aspettati. Una gran baldoria che ha pagato il prezzo dei contenuti. Fuori da teatro gli spettatori erano più intenti a godersi il momento di caos piuttosto che a riflettere su ciò’ che la recitazione aveva loro insegnato.
Alla nostra domanda “In che personaggio vi riconoscete di più?“, la maggior parte, dopo un incerto pensare, risponde con il nome del personaggio preferito. Purtroppo quando ne chiediamo il perché, per quasi tutti non rimane che citare laconicamente stralci delle battute di copione che non si sa fino a quando riusciranno a ricordarlo.
Un altro elemento (che a quanto pare ha accomunato noi al resto del pubblico) è che probabilmente sarebbe stato più d’effetto se la disillusione fosse stata portata fuori dalle pareti in cui era rimasta chiusa per quel paio di ore. Ci saremmo aspettati attori che, nella stessa crudezza e coerenza dei personaggi che incarnavano, semmai avrebbero raccolto le loro cose lasciando il teatro nel mezzo della recitazione e, forse, si sarebbero diretti vestiti dei loro ruoli, verso le loro auto o comunque per le strade.
Questi, invece, hanno optato per lo spogliarsi dei panni critici al fine di indossare i panni da festa. Della realtà, purtroppo, nessuno si è più ricordato. Un’invenzione certamente ammirabile questo format, un tipo di teatro che “rasenta” il genio. Tuttavia i concetti non sono stati colti fin nel profondo. Da quello che si è potuto riscontrare, la “colpa” non è affidabile ad altro se non alla conclusione, la quale meritava come il resto dello spettacolo, ma non ha di certo scosso la memoria di chi vi ha assistito. Insomma, tra le critiche e le lodi, la serata finisce con una banconota tra le mani, e immaginate lo stupore nello scoprire che… non era affatto un dollaro!
In collaborazione con Fatima Seltane
23 ottobre 2014