Quando si parla della strage di Torino si fa riferimento alle aggressioni e agli omicidi commessi dalle squadre fasciste ai danni di diversi militanti di organizzazioni popolari. Quegli atti, commessi tra la notte del 18 dicembre e il 20 dicembre del 1922, non furono altro che una rappresaglia fascista, una vendetta per la morte di due squadristi causata da Francesco Prato, un 22enne operaio e comunista, che la notte del 17 dicembre reagì all’attacco di due militanti, Giuseppe Dresda e Lucio Bazzani, che poche ore dopo morirono.
La risposta dei fascisti non si fece attendere:
“I nostri morti non si piangono, si vendicano […] Possediamo l’elenco di 3000 nomi di sovversivi. Tra questi ne abbiamo scelti 24 e i loro nomi li abbiamo affidati alle nostre migliori squadre, perché facciano giustizia. E giustizia è stata fatta. […](I cadaveri mancanti) saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nei fossi, nei burroni o nelle macchie delle colline circostanti Torino”.
A guidare le camice nere c’era Piero Brandimarte, ufficiale e squadrista italiano, che proprio quell’anno ottenne il comando di tutte le squadre d’azione del capoluogo piemontese. E in quei due giorni si accumularono cadaveri su cadaveri, 11 per la precisione. Alcuni morirono nella propria abitazione, altri vennero sequestrati e portati in campagna, altri ancora (26) rimasero feriti e, infine, altri sparirono. I morti della strage di Torino erano operai, ferrovieri, attivisti, negozianti e antifascisti.
Piero Brandimarte subì un processo nel 1945 e nel 1950 fu condannato a 26 e 3 mesi di reclusione per gli omicidi commessi, ma due anni dopo, il 30 aprile 1952, arrivò l’assoluzione a causa dell’insufficienza di prove dell’accusa.