Il disastro del Cermis del 9 marzo 1976 fu solo il primo di altri incidenti che avvennero in quella zona e accadde sulla funivia di Cavalese (il secondo nel 1988, molto simile a quello precedente, e il terzo nel 2013, quando si ribaltò una motoslitta con rimorchio), causando la morte di 42 persone, di cui 15 bambini tra i 7 e 15 anni.
Era pomeriggio inoltrato quando la fune portante della funivia cedette, si ruppe e fece sì che la cabina andasse a schiantarsi dopo un volo di 200 metri lungo il fianco della montagna e altri 100 metri sui prati di Salanzada. Durante la caduta la cabina fu anche schiacciata dal carrello superiore, che pesava ben 3 tonnellate.
Erano 43 le persone a bordo della cabina e tra queste se ne salvò solo una, Alessandra Piovesana, una studentessa 14enne di Milano che si trovava in gita scolastica e che vide morire due suoi amici. Lei, l’unica sopravvissuta, dopo un lungo periodo di degenza in ospedale, testimoniò nei processi successivi e fu risarcita.
Quella cabina poteva contenere 40 persone, ma quel 9 marzo a bordo ce n’erano 43, un fatto giustificato dall’operatore di turno con la presenza di molti bambini. Durante l’inchiesta, però, emerse la causa dolosa del disastro del Cermis in quanto i circuiti automatici di sicurezza non erano attivi come dichiarato e questo per velocizzare il trasporto dei passeggeri.
Le autorità competenti fecero il possibile per non fare alzare il polverone e mettere a tacere quanto avvenuto e alla fine fu una sola la persona a pagare per quanto accaduto: Carlo Schweizer, il manovratore sul quale ricadde il peso di una simile tragedia e che fu condannato a tre anni di reclusione. Ma con lui, forse, avrebbero dovuto pagare anche quei dirigenti che l’avevano messo a svolgere la mansione senza che lui fosse in possesso del patentino di manovratore. Solo successivamente si riaprì l’inchiesta e si condannò a tre anni di reclusione anche Aldo Gianmoena, il capo servizio, anche lui accusato di omicidio colposo.