Uno dei massimi fotografi giapponesi, maestro di “realismo sociale”, testimone esemplare del Sol Levante assolutista-imperialista degli anni Trenta e della guerra, degli orrori di Hiroshima e del nuovo Giappone postbellico. Domon Ken (1909-1990), da alcuni detto “il Cartier-Bresson nipponico” per il delicato scavo psicologico dei volti e delle persone (gente comune per strada o amici intellettuali) catturate con l’obiettivo in mezzo secolo, è con le sue opere al Museo dell’Ara Pacis dal 27 maggio al 18 settembre 2016, in una monografica – Domon Ken. Il maestro del realismo giapponese – allestita per il 150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia.
Circa 150 foto per la prima volta fuori dai confini del Giappone, il grosso in bianconero alcune a colori, scattate tra anni ’20 e ’70 in una traiettoria che muove i passi dal fotogiornalismo e dalla fotografia di propaganda per approdare al realismo crudo e dolente della serie di Hiroshima e poi alla febbre di rinascita del dopoguerra. C’è veramente tutta la storia del Giappone del ‘900, in queste immagini. Se possibile, c’è un’essenza intima di quella storia, un filo che unisce gli antipodi della retorica militarista e dei postumi del disastro nucleare.
Un filo costituito dalla compresenza di due elementi, segnalati dallo stesso Domon: il legame con la tradizione classica, che poi è il sentirsi visceralmente, irrevocabilmente giapponesi; e un umanesimo di disarmante intensità, apparentemente semplice ma fatto di molte facce (curiosità d’ogni piega dell’umano, pietà, dolore, meraviglia, ironia, un cesellato senso orientale del bello…). Ora, questi due pilastri non solo avvicinano Domon alla storia collettiva del suo paese, sono essi stessi patrimonio in larga misura condiviso da lui e dai giapponesi, dunque dai soggetti fotografati.
Un filo che passa lungo l’intero arco storico: è nelle foto militar-sportive alla Leni Riefenstahl come nella serie dei burattinai, nella ferocia dello stillicidio post-nucleare – venata di compassione per le vittime – come nella danza del Giappone rinascente tra ricostruzione e nuove sofferenze (quelle dei minatori e dei loro bambini, ad esempio). E che non scompare neanche nella celebre serie dei templi, rivelazione dell’attitudine umana per l’armonia, l’edificare secondo natura, la manipolazione sagace della materia (e dell’attitudine giapponese per l’attenzione al dettaglio più minuto).
E’ lo stesso Domon, come si accennava, a chiarire. Sue queste parole, pronunciate negli anni della ricostruzione: “Sono immerso nella realtà sociale di oggi ma allo stesso tempo vivo le tradizioni e la cultura classica di Nara e Kyoto. Il duplice coinvolgimento ha come denominatore comune la ricerca del punto in cui le due realtà sono legate ai destini della gente, la rabbia, la tristezza, la gioia del popolo giapponese”.
La mostra è promossa da Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il supporto del Bunkacho, Agenzia per gli Affari Culturali del Giappone, e della Japan Foundation. L’organizzazione è di MondoMostre Skira con Zètema Progetto Cultura. A cura di Rossella Menegazzo (docente di Storia dell’Arte dell’Asia Orientale all’Università degli Studi di Milano) e Takeshi Fujimori (direttore artistico del Ken Domon Museum of Photography).