Dall’epoca dei re a quello degli imperatori, il numero delle divinità e dei culti a essi connessi è andata via via aumentando all’interno del calendario romano. Ai tempi di Augusto, in particolare, il numero degli dei è tanto considerevole, quanto il risultato delle conquiste italiche Romane.
Nel calendario romano, infatti, si tengono conto dei numi indigeni (indigites) e dei numi che con il passare del tempo furono introdotti (novendis) al suo interno. Con un piccolo particolare: a prescindere di come una certa divinità veniva chiamata, popoli diversi, seppur con nomi e forme differenti, veneravano la stessa divinità.
I popoli indiziari di questo fronte comune, scrive Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, I, 25), rispondono ai nomi di Pelasgi e Tirreni. Lontani dai territori di appartenenza, la Tracia e la Lidia, permisero la commistione con quelli che occupavano la Grecia e l’Italia, contribuendo alla creazione di nuove civiltà e religioni.
Ulteriori prova di quanto appena descritto sono le possenti mura che ancora oggi possiamo ammirare in alcune città del Lazio o della Toscana, senza dimenticare le catacombe etrusche. Del resto, sia la civiltà latina che quella greca condividono senza ombra di dubbio il medesimo centro religioso costituita dall’isola santa di Samotracia (Vaccai, pagina 10, Le feste di Roma Antica).
Tra le divinità più antiche, quelle dei popoli Itali furono mantenute più a lungo rispetto a quelle dei Greci. Soprattutto, fu la natura personificata dell’ozio e delle messi a resistere e a delineare una religione sì primitiva ma pure fondamenta di tutte le altre.
Una trasformazione che avrà il suo culmine fra gli dei adottati da Roma a seguito dopo la conquista delle province della Campania e non ultimo della Magnagrecia; senza contare che proprio da queste invasioni derivano gran parte dei culti adottati e riconducibili ai Pelasgi e ai Tirreni cui ho accennato.
Erodoto e Dionigi furono i primi a sottolineare la relazione religiosa fra questi popoli antichi e civiltà romane o greche e furono anche i primi a sollevare la questione se Pelasgi e Tirreni non fossero in realtà lo stesso popolo. A prescindere dalla risposta positiva o negativa al quesito che ho appena formulato, di una cosa possiamo essere sicuri: i due popoli avevano comuni consuetudini e credenze in materia religiosa. Inoltre, pare che la decadenza dei primi, andò di pari passo con l’ascesa dei secondi. Di fatto l’ipotesi di Dionigi ed Erodoto viene allora disattesa.
Ma se non possiamo prendere in considerazione che i due popoli non fossero altro che due facce della stessa medaglia, sappiamo da Erodoto (I, 94) che l’influenza dei secondi fu dovuto alla ricerca di miglior fortuna e che si chiamarono così in onore di Tirreno che li guidò durante la migrazione. A parlarci dei Pelasgi è invece Varrone (L.L, V, 58), il quale colloca la venuta di questo popolo presso il lago Cutiliense, fra Rieti e Amiterno, terra destinata a essere la loro nuova patria dopo un lungo peregrinare. Fu l’oracolo di Dodona a indicargli la via intrapresa e lì ne istituirono i culti a Saturno, cacciando di fatto i Siculi.