I riti funerari e la celebrazione dei morti nell’antica Roma erano ben diversa da quella che conosciamo oggi, tanto che i resti del defunto venivano un tempo conservati all’interno delle case.
In numerose civiltà, la morte era solo una diversa manifestazione della vita stessa, motivo per cui era scandito da più riti che precedevano la tumulazione della persona passata a miglior vita: chiamare il morto tre volte, augurargli la terra leggera o seppellirlo munendolo di oggetti utili alla sua cura o nutrimento sono solo un esempio della convinzione per cui non si fosse in realtà staccatosi davvero dal mondo cui apparteneva.
Un morto non abbandonava mai la casa familiare; la sua presenza era considerata continua, tanto da diventare egli stesso l’entità divina volta a proteggerne l’integrità. La presenza costante veniva scandita dal fuoco acceso sull’altare domestico e a questi si rivolgevano preghiere e invocazioni, mentre in precisi giorni dell’anno si portavano sulla sua tomba vino, latte e in generale cibo che, sotterrato, si aveva la convinzione potesse arrivare fino al morto.
I riti funerari e le celebrazioni dei morti nell’antica Roma così intesi stabilirono di fatto un legame forte tra i defunti e le abitazioni dove ne venivano conservati i resti. Abbandonare una casa, infatti, significava abbandonare i propri morti, rinunciando di fatto ai penati e alla religione fino a quel momento conservata nella propria dimora.
La decisione di abbandonare una casa significava dover rinunciare alla divinità che la proteggeva, perché il defunto non avrebbe avuto più nessuno pronto a far fronte ai suoi bisogni. Di fatto, una decisione di questo tipo era vietata dalle religione. Lasciare casa aveva come conseguenza che anche i morti avrebbero dovuto seguire i vivi dove questi ultimi si sarebbero trasferiti. Solo in questo modo la famiglia avrebbe potuto conservare la sua religione.
Ma trasportare tutti i morti non era materialmente possibile e allora ecco lo stratagemma: per adempiere alla religione, si prendeva un po’ di terra dalla vecchia casa e la si trasportava nella nuova. Così facendo, si riteneva conservato il diritto dei morti e la loro figura tutelare, che di fatto passava da una casa all’altra.
Il rito si ripeteva sia in virtù della costruzione di una nuova casa, sia che a nascere fossero intere città. La procedura rimaneva la medesima in ogni caso. Nel primo, il limite della religione della casa era rappresentato dalle mura domestiche, entro il quale questa era consentita; nel secondo, invece, il limite erano le mura di cinta, di fatto l’area urbana.
Verosimilmente, il rito così inteso era etrusco. Testimonianza in tal senso ci arriva da Varrone (L.L.V, 143), che scrive: “cioè messi a giogo un toro e una vacca, sì che fosse dalla parte di dentro, conducevano un solco in giro per ripararsi come fosse muraglia“. E lo stesso afferma Servio, con l’aggiunta che il conduttore dovesse essere vestito secondo il rito Sabino: toga succinta a ricoprire in parte il capo, con l’aratro tenuto curvo così che le zolle si rompessero dalla parte interna, dove quest’ultimo veniva sollevato in prossimità di quei punti dove sarebbero nate le porte.
A dispetto di dove sarebbero nate le mura che seguivano il solco dell’aratro, uno spazio veniva poi lasciato libero, il cosiddetto pomerio, area che segnava il limite degli auspici urbani. Chi non partecipava alla creazione del Mundus – la nuova civitas – non era considerato cittadino e andava a costituire una casta inferiore, senza né dei né diritti. Queste persone costituivano di fatto la plebe, alla quale era proibito il culto agli Dei Mani di cui parlerò nel prossimo articolo legato a i riti funerari e la celebrazione dei morti nell’antica Roma.