Anna Stepanovna Politkovskaja è stata una giornalista russa conosciuta perché critica nei confronti del Governo e dell’intervento armato in Cecenia, ma anche per il suo costante impegno sul fronte dei diritti umani. Figlia di due diplomatici ucraini, nacque a New York il 30 agosto 1958 e si laureò in Russia, all’Università di Mosca, in giornalismo. Iniziò due anni dopo la sua carriera nel mondo della stampa. Per 11 anni lavorò presso il giornale Izvestija, poi tra il 1994 e il 1999 collaborò con radio e tv libere e lavorò come cronista. Proprio verso la fine degli anni Novanta iniziò a interessarsi alla questione cecena e nel 1998 visitò il luogo come inviata dell’Obščaja Gazeta per intervistare il neo Presidente. Nel 1999 Anna Stepanovna iniziò a lavorare per la Novaja Gazeta, dove rimase fino alla sua morte. Fu in quegli anni che pubblicò diversi libri con i quali si affermò come voce critica di Vladmir Putin (secondo lei violava i diritti civili dei russi e dei ceceni ed era dispotico), della guerra in Cecenia, Inguscezia e Daghestan.
Le sue affermazioni con gli anni le causarono minacce di morte e nel 2001 quelle ricevute da Sergei Lapin, Ufficiale dell’OMON (l’Unità speciale della Polizia) che lei accusava di crimini contro i civili, la costrinsero a fuggire a Vienna. Nel 2005 l’uomo fu condannato per abusi e maltrattamenti e per falsificazione di documenti. La sua figura risultò importante anche nel 2002, durante la crisi del Teatro Dubrovka di Mosca, quando fu necessario trattare con i terroristi per il rilascio di alcuni ostaggi. Alla fine, però, furono le forze dell’ordine a risolvere la questione. Nel 2004 Anna Stepanovna Politkovskaja tornò in Cecenia per trattare con i separatisti, ma durante il volo si sentì male e per questo fu ricoverata.Non furono mai chiariti i motivi del suo mancamento, ma si parlò di un tentativo di avvelenamento nei suoi confronti.
Il 7 ottobre 2006 il corpo senza vita di Anna Stepanovna Politkovskaja fu ritrovato a Mosca all’interno dell’ascensore del palazzo in cui abitava. Accanto a lei quattro bossoli. Si pensò all’omicidio premeditato e per questo la polizia sequestrò il suo pc e controllò il materiale dell’inchiesta che stava portando avanti. Due giorni dopo Muratov, editore della Novaya Gazeta, affermò che la giornalista il giorno della morte avrebbe dovuto pubblicare un pezzo legato al Ministro Ramsan Kadyrov. Proprio lui finì nel mirino, ma non si tralasciò anche la pista cecena.
La sua morte provocò la mobilitazione della gente, che nei giorni che seguirono scese in piazza per protestare contro alcune manovre restrittive del Governo e tra gli accusati finì anche Putin che, in visita in Germania, fu chiamato “assassino”. Le indagini andarono avanti, ma mai in modo preciso e furono tante le lacune del caso. Due ceceni furono incriminati insieme a un funzionario dei servizi segreti russi e dopo tre processi, nel 2014, è arrivato il primo verdetto: colpevoli.