Vola alto, l’incipit della nuova (e assai generosa) stagione del Teatro dell’Opera di Roma: alle 16.30 di domenica 27 novembre, prima che s’alzi il sipario, la bacchetta di Daniele Gatti mette in moto nel golfo mistico l’ondosa, respirante macchina orchestrale di Tristan und Isolde di Richard Wagner: il celebre, dissonante “accordo del Tristano” che apre il preludio, l’alfa della modernità, culmine dell’Ottocento romantico e sublime annuncio di avanguardia e dissoluzione.
Tristan und Isolde manca da Roma dal 2006 e prima ancora qui al Costanzi era stata data a metà anni ’80, in un’edizione rimasta negli annali per le memorabili scene di Alberto Burri. L’opera è senz’altro una patata bollente: è la più lancinante e complessa di Wagner, un autentico big bang che sovvertì ogni uso compositivo e teatrale dell’epoca, cinque ore di flusso di coscienza e azione meramente interiore, una scrittura orchestrale di tale intricato turgore e una struttura armonica di tanta sottigliezza e complessità da lasciare ancora oggi attoniti, nel considerare l’anno in cui Wagner terminò il Tristano: 1859. E infatti in quell’anno l’Opera di Vienna rifiutò il dramma definendolo semplicemente non rappresentabile. E pensare che Tristano era nato su commissione d’un’opera di cassetta, con un impianto scenico ridotto al minimo per contenere le spese… E fu invece un salto quantico, per dirla con termine della fisica, il salto d’un secolo. Qualcosa come l’improvvisa esplosione del classicismo ateniese sotto Pericle, quando in un battito d’ali (su scala storica) si passò a un mondo nuovo.
Prendere in mano questa patata bollente, questo vertiginoso capolavoro, è compito ingestibile se non lo si ama visceralmente, se la sua materia (e la sua nostalgia d’assoluto e di naufragio, la sua Sehnsucht) non sono in qualche modo parte costituiva, se pur recondita, della propria personalità. Con Tristan und Isolde non si scherza: per la vastità dell’impegno richiesto e anche perché questa è un’opera rischiosa, da prender con le molle. Un vortice che risucchia. E per interpretarla (come pure per ascoltarla) occorre entrare nel gorgo e saperne poi uscire. In fondo è logico che le messe in scena del capolavoro wagneriano siano relativamente rare, non è solo questione di difficoltà tecniche: Tristan ci pone a contatto con parti di noi, coscienziali e storiche, che è bene attraversare senza rimanervi impigliati. Non fa venir voglia di invadere la Polonia (la deliziosa battuta di Woody Allen in Misterioso omicidio a Manhattan sbaglia però i presupposti, Tristano si colloca a distanza siderale da qualsiasi bellicosità) ma può sollecitare le parti più inattingibili dell’eros, quel bisogno di totalizzazione da cui per vivere – Freud insegna – dobbiamo necessariamente prendere le distanze.
I due wagneriani di questo Tristan romano 2016 sono Daniele Gatti – il direttore – e Pierre Audi – il regista. Gatti è ormai uno specialista del lipsiense, considerato il miglior esponente odierno di quel filone (Wagner “visto da sud”) che conobbe gli splendori di Giuseppe Sinopoli, tanto da essere oggi l’unico direttore italiano invitato regolarmente a Bayreuth. Il franco-libanese Audi è un amante – prudente e riflessivo – delle sfide paradossali. E questa lo è dato che – sottolinea lo stesso regista – con Wagner si annulla il consueto compito della regia, quello di chiarire e dar corpo alla narrazione: nel Tristano la musica spiega tutto e il compito del regista “non è aggiungere ma sottrarre”.
Il risultato, alla vigilia della prima, si profila all’insegna di una geometrica essenzialità delle scene, interamente concentrate sui cantanti e fuse con una lettura musicale che, a sua volta, si preannuncia orientata a marcare lo specifico di Tristan und Isolde nei suoi caratteri: intimità (azione integralmente trasferita nella coscienza), dilatazione, tensione infinita, attesa.