Roma, 10 novembre – Inizialmente si trattava solo di filo spinato ma era pur sempre una divisione. «Nessuno ha intenzione di costruire un muro» disse nel 1961 Walter Ulbricht, capo di Stato della Ddr ma mentiva. A partire dal 15 agosto furono posati i primi blocchi di cemento e pietra e, di lì a poco, fu eretto il muro della vergogna che divise Berlino in due parti: est e ovest. Simbolo della Cortina di ferro che divideva l’Occidente dal mondo filo sovietico. Il 9 novembre 1989 quel muro fu buttato giù e i cittadini poterono finalmente varcare i confini da uomini liberi ma per decenni vissero costretti in condizione di prigionia: «Era il 1961. Si alzava il Muro – racconta Hans – sino al 1952 potevamo circolare liberamente di qui e di là. Poi, con la guerra fredda, ci hanno chiusi dentro. Come animali. Prima stavo spesso nella Berlino occidentale: vendevo un po’ di tutto, soprattutto agli americani. Erano gentili con me, un sergente in particolare: oltre a i soldi mi dava sempre la cioccolata. Ho sempre pensato – continua Hans – che anche i russi, come gli alleati, fossero dei liberatori. Invece mi ero sbagliato. Solo più tardi ho saputo delle atrocità commesse dai soldati dell’Armata Rossa quando entrarono a Berlino: civili uccisi, donne stuprate, bambini col cranio schiacciato dal calcio dei fucili. Me lo raccontò mia zia mentre stava morendo. Quelle parole, e tutto ciò che avevo intorno qualche giorno dopo il funerale, mi convinsero a scappare».
Il Muro di Berlino divenne un simbolo vivente dell’oppressione, della tirannia e malvagità di un regime che negava ai propri cittadini non solo la libertà ma anche la possibilità di fuggire, nella speranza di una vita migliore. Il 9 novembre 1989, dunque, è una data storica. Segna la speranza verso il cambiamento, il superamento di un’ingiustizia, la fine di una divisione forzata tra due popoli che, in realtà, erano un solo popolo.