Roma, 28 ottobre – Un esercito di detenuti. Perlopiù immigrati, i quali potrebbero tornare in patria per esser giudicati e scontare la pena nel loro paese. Teoricamente la legge prevederebbe questo. Ma non è così. Difatti, secondo un’inchiesta svolta da “Il Fatto Quotidiano”, sono pochissimi gli stranieri irregolari che tornano a casa, portando così le carceri ad un fisiologico sovraffollamento. La non applicazione della legge, dunque, crea rilevanti problematiche.
Secondo il quotidiano, non ci sarebbero addirittura neanche dati ufficiali riguardanti il numero di persone espatriate secondo la Convenzione di Strasburgo, protocollo che prevede accordi bilaterali tra gli stati per i detenuti stessi.
Le cifre fornite dal DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) fa sapere che sono 22.700 i carcerati stranieri. Dunque, ogni tre detenuti italiani ce n’è uno estero. Se la legge fosse applicata, dunque, questa emergenza non sussisterebbe. Scorrendo i dati che vengono snocciolati durante l’inchiesta, si evince che un detenuto costa allo Stato circa 124,60 euro al giorno, più di quanto un italiano medio guadagna sul posto di lavoro. Inoltre, un lavoratore produce reddito e paga tasse, differentemente alla condizione di un carcerato. Dunque, si stima che l’Italia sborserà circa 909 milioni di euro per far fronte allo stato delle cose. E tutto ciò, soltanto nel 2013. Quanto si risparmierebbe se il sistema funzionasse? Basta fare due conti, moltiplicando la cifra per per il numero dei detenuti, ottenendo l’ammontare di circa un milione e mezzo di euro al giorno, considerando i costi dell’espatrio.
Lungi da chi scrive, ovviamente, dare adito a questioni razzistiche. Si tratta semplicemente di fare i conti con un dato che cresce giorno dopo giorno a causa di un’errata applicazione di legge. Inoltre, è bene ricordare come siano circa trentamila gli italiani che scontano la propria condanna all’estero. Piuttosto, il discorso assume anche connotazioni etiche. Rimandare gli stranieri in patria è un atto di razzismo? Nessuno ha mai pensato che le condizioni dei detenuti non sono delle migliori e che un eventuale ritorno a casa garantirebbe ai carcerati la possibilità di vedere nelle ore di visita i propri familiari?
Domande legittime, ma che si arenano contro la realtà dei fatti. I trasferimenti, infatti, sono fondamentalmente bloccati. Non si tratta neanche di discernere questioni ideologiche. Si tratta semplicemente di risparmio, di efficiente collocazione delle risorse. Ma quali sono gli accordi previsti che regolano la materia della detenzione fra i vari stati? L’Italia, oltre alla Convenzione di Strasburgo, aderisce ad accordi con numerosi stati esteri: dal 1998 c’è un protocollo d’intesa con L’Avana, dal 1999 con Hong Kong, oltre ad accordi decennali con Bangkok. Tuttavia, il numero dei detenuti di questo stato appare irrisorio. Le criticità, infatti, si riscontrano con detenuti provenienti da Albania, Brasile, Marocco, Romania o Tunisia
Infine, ci si pone la domanda: ci sarebbero stati dei trasferimenti, autorizzati, ma sono stati pochissimi e i dati? La risposta fa male: del tutto assenti. Tranne per quel che riguarda alcuni dati del Ministero degli Interni (dal 2006 al 2008) secondo cui sarebbero stati trasferiti 216 detenuti. Di certo non tantissimi ed il perché non è noto. Mentre l’emergenza monta, ci si ritrova a combattere contro muri di gomma: la colpa è solo da ricercare nella farraginosa burocrazia italiana? Nel frattempo c’è chi pensa alla concessione dell’indulto o dell’amnistia. Ma è davvero questa la strada da percorrere?