Roma, 7 Marzo – C’era una parola, Conformismo, che fino a qualche anno fa, era considerata in modo negativo e a molti faceva impressione. Significava innanzitutto adattarsi, omologarsi a una situazione o una moda, adeguarsi agli usi e alle opinioni socialmente e politicamente prevalenti.
Un concetto disprezzato soprattutto nell’ambito culturale, da evitare come la peste perché rischiava di mandare all’aria tutto il paziente e ragionato lavoro intellettuale fatto nel corso della vita. Ciò non significava necessariamente andare contro, quanto piuttosto restare distinti e autonomi, padroni di sé e dei propri pensieri.
Poi è arrivata una slavina silenziosa, una deriva lenta ma continua ed efficace, e il Conformismo, senza farsi notare, si è preso la rivincita. Ha lavorato di fino, tessuto trame, costruito abitudini, occupato spazi lasciati scoperti fino al punto che se oggi, invece di guardare in basso come siamo avvezzi, distrattamente alziamo gli occhi al cielo, può succedere di dirsi: accidenti! In effetti ha vinto lui. Eccola qui, la deriva culturale: l’incapacità mentale di muoversi e pensare al di fuori del recinto che il Conformismo ha costruito attorno alla nostra immaginazione. L’impossibilità di distinguersi, di violare le regole del gioco. Esso non è più questione di scelta o di rifiuto, ma di necessità, perché, sostanzialmente, non esistono più alternative all’essere conformi.
Ma se certe cose non esistono è perché non siamo più grado di pensarle e progettarle. Siamo distratti da altro, trascinati dai vortici sempre impetuosi del social, il nome nuovo che ha adottato il Conformismo passando dall’ufficio anagrafe delle ideologie, dove agiamo e lavoriamo, condividiamo e commentiamo notizie, opinioni, fatti, giudizi, impressioni. Non soltanto nello spazio principe dei social network, perché a volte il livello delle nostre conversazioni sul piano della realtà è anche più social di quello virtuale. Inseguiamo a rotta di collo informazioni e aggiornamenti, ci inseriamo nel nuovo spazio della comunicazione pubblica e cerchiamo essenzialmente di dire la nostra nel modo migliore possibile. Perché di questo si tratta, dire la propria. Come fanno i grandi giornalisti, gli autori, i politici, i registi e gli scrittori nello stesso spazio al quale abbiamo accesso anche noi: dicono la loro. Ma queste sono chiacchiere, dove è finito il lavoro culturale?
Nelle riviste di cui si vende qualche decina di copie, nei libri che vanno subito fuori catalogo, nelle conferenze alle quali partecipano quattro gatti, nei retroscena, in qualche corridoio delle università. Sta su un altro universo, quello dei sotterranei della società, dove non si riesce a vederlo.
È possibile pensare un altro spazio? Un altro ruolo e una vita diversa della cultura? È difficile, ma almeno potremmo iniziare a non farci trascinare a valle dalla corrente, se proprio dobbiamo stare nel fiume, proviamo a mettere radici e stare fermi come un albero, mentre tutto il resto passa oltre.