Con un decreto che entrerà in vigore il primo aprile – no, non è uno scherzo – arriva il tanto agognato tetto massimo agli stipendi dei Manager di Stato, perché se è vero che molte famiglie non arrivano nemmeno alla terza settimana del mese, 311 mila euro possono rappresentare a buon diritto un limite accettabile per recuperare risorse da destinare a quei comparti che hanno più risentito della crisi economica nel nostro paese.
La domanda, legittima, però, è se questa riduzione del 25% sarà vera oppure presunta, con i politici che a parole promettono e poi invece, a conti fatti, fanno tutto il contrario, minando la fiducia della base elettorale, il popolo chiamato a confermare o meno un operato non sempre irreprensibile.
Detto questo, è di del 28 marzo la notizia del ministero dell’economia guidato Pier Carlo Padoan, dell’imminente riduzione degli emolumenti percepiti dai manager alla guida delle aziende di cui il Tesoro è il maggior azionista. Aziende che, ricordiamo, non sono né quotate, né autorizzate ad emettere obbligazioni su mercati regolamentati.
Detto questo, in riferimento al decreto ministeriale del 24 dicembre, ma pubblicato in Gazzetta Ufficiale solo il 17 marzo scorso, per tutti gli amministratori di queste società varrà il tetto massimo percepito dal primo presidente della Cassazione, cioè appunto 311 mila euro. Norma, questa, che fa riferimento tra l’altro a quando era ancora in carica il governo Letta. Un tetto massimo che a sua volta sarà regolamentato in base a delle “fasce di complessità”, graduando così gli stipendi annuali dei massimi dirigenti.
Da ciò ne consegue che, per le aziende con fatturati ed investimenti più ingenti, vedi Anas, Invimit e Rai, i rispettivi manager Pietro Ciucci, Elisabetta Spitz e Luigi Gubitosi dovranno attenersi alla soglia di cui sopra dei 311 mila euro. Al contrario, per i manager delle aziende appartenenti alle fasce inferiori, dove sono state inserite Coni Servizi, Consap, Consip, Enav, Eur spa, Gse, Invitalia, Poligrafico, Sogei e Sogin, varrà invece un limite dell’80%, con un tetto massimo di 249 mila euro.
Ed ecco , allora, le prime sorprese: nei giorni scorsi, Domenico Arcuri, a.d di Invitalia aveva già sbandierato ai quattro venti la riduzione del suo stipendio a 300 mila euro. qual è il problema? il problema è che secondo il decreto ministeriale Invitalia appartiene alla seconda fascia, quindi ad Arcuri spetterebbero “solo”, si fa per dire, 249 mila euro. La domanda è se i 300 mila euro dichiarati da Invitalia prima dell’entrata in vigore del decreto verranno considerati “salvi”, oppure no. Medesimo discorso per i 270 mila euro dell’a.d di Eur s.p.a, Lo Presti, che nel 2013, e sempre prima dell’entrata in vigore del decreto, aveva deciso di abbassarsi lo stipendio.
Piccole differenze rispetto ai limiti di cui vi abbiamo parlato, ma pur sempre significative.
Il nodo cruciale, però, potrebbe essere rappresentato iin realtà dalle società quotate, come Eni, Enel e Finmeccanica, per le quali il tetto dei 311 mila euro non vale. La riduzione del 25% per questo tipo di aziende entrerebbe in vigore se e quando l’emendamento avrà voto favorevole durante l’assemblea degli azionisti. Detto in altre parole, i consigli di amministrazione potrebbero determinare un esito diverso da quello auspicato dalla norma.
In verità, già nei giorni scorsi Fulvio Conti, dell’Enel, aveva annunciato una decurtazione da 3,5 milioni di euro, a 2,1 milioni di euro dei suoi emolumenti, che rimarranno comunque quattro volte superiore al tetto massimo dei 249 mila euro per le società di seconda fascia. Ma lo stipendio di Conti non è il solo a destare perplessità, naturalmente, perché altri manager, vedi Paolo Scaroni dell’Eni, con i sui 6,5 milioni di euro, Flavio Cattaneo di Terna con i suoi 2,3 milioni di euro e Alessandro Pansa di Finmeccanica con il suo milione di euro tondo tondo, percepiscono ancora stipendi milionari.
Diverso il discorso per le società quotate ma che emettono obbligazioni, vedi Poste, Fs e Cassa Depositi, per cui la riduzione del 25% è obbligatoria: per la prima, Poste Italiane, c’è in ballo lo stipendio di Massimo Sarmi (2,2 milioni di euro ai quali vanno aggiunte spettanze relative all’anno 2011). In Cassa Depositi e Prestiti, al contrario, già nel 2013 era stata deliberata una riduzione degli emolumenti dell’a.d Giovanni Gorno Tempini, passati da 1,03 milioni a 788 mila euro. Stesso discorso per mauro Moretti, con una riduzione marginale del su stipendio dagli ormai famosi 873 mila euro.
Roma, 30 marzo