Roma, 24 gennaio- La kafala (garanzia) un contratto di lavoro che nasconde una totale proprietà sull’assunto, senza controlli e senza vie d’uscita. Torturati, stuprati e uccisi i nuovi schiavi sono soprattutto di origine asiatica e si spostano nei nuovi ricchissimi Paesi del Golfo con la speranza di riuscire a vivere e mantenere la famiglia del luogo d’origine. In base agli accordi le collaboratrici domestiche dovrebbero pensare alla casa, a cucinare e a badare ai figli, ricevendo in cambio vitto e alloggio e un piccolo stipendio che così potrebbero mandare ai propri figli. Questa ufficialità nasconde una realtà molto diversa, crudele e inascoltata, soprattutto verso le donne che nei Paesi oltranzisti del Golfo non hanno alcun diritto se non accompagnate da uomini. Ad aprire gli occhi sulla situazione disastrosa dei nuovi schiavi è Human Rights Watch, che lo scorso 8 dicembre, nella giornata mondiale per l’immigrazione ha lanciato l’allarme sulle torture che ricevono le collaboratrici domestiche straniere, soprattutto in Arabia Saudita, Bahrein, Emirati arabi uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Pensiamo per esempio a Felixberta Pasco, cameriera filippina di 32 anni, corsa a chiedere aiuto alla propria ambasciata di Abu Dhabi dopo che il suo padrone l’aveva picchiata sul viso e sulla schiena. Oppure Lahanda Purage Ariyawathie, i medici le rimossero dal corpo 24 tra aghi e chiodi dai 2 ai 5 centimetri che il suo padrone le aveva conficcato nel corpo per essersi lamentata delle troppe mansioni domestiche. Tante le donne che si sono suicidate, distrutte fisicamente e psicologicamente, sia dalle torture che dall’impossibilità di denunciare e di farsi riconoscere i propri diritti. Infatti viene considerato un reato non adempiere alla kafala, si rischia anche la decapitazione, oppure se una donna si reca da sola in commissariato per denunciare violenze, senza la supervisione di un uomo, rischia 40 o più frustate. L’unica sentenza in proposito è stata quella di Khadija Kamel, etiope, appena vent’enne, è morta lo scorso ottobre. Il suo corpo non ha retto, ai digiuni forzati e prolungati, alle bastonate della padrona e agli stupri del padrone. Veniva inoltre obbligata a bere pesticidi e detersivi. Dopo la sua morte, il tribunale si è svegliato, ha processato (per la prima volta) i due ricchi padroni, condannandoli a 15 anni. Human Rights Watch ha esortato i Paesi del sud-Asiatico di pretendere dagli stati del Golfo il rispetto dei diritti e la dignità delle donne, e in più in generale degli immigrati. Così come va cancellata e totalmente riscritta la kafala.
di Elisa Bianchini