Roma, 11 marzo – Simone ha quasi tre anni e quest’anno non va a scuola. Sua madre è un’impiegata part time e in famiglia si è deciso di risparmiare un po’, tenendo il bambino a casa. Fondamentale l’aiuto da parte dei nonni che guardano il nipotino tutte le mattine. In questo modo la famiglia riesce a risparmiare circa 500 euro al mese. E non è affatto poco.
Una scelta simile l’hanno presa tantissimi altri genitori in tutta Italia e per la prima volta, dal 2004, cala il numero di iscritti al nido comunale. A parlare sono i dati dell’Istat: il 2011 ha visto il 14% di iscritti, che nel 2012 sono scesi al 13,5%, una differenza di 0,5 punti percentuali appena, ma che ha determinato circa 8.904 alunni in meno.
Succede soprattutto in Veneto, dove i bambini dell’asilo sono l’8,9 % in meno; nella provincia di Bolzano (-7,8%); in Valle d’Aosta (-5,9%) e poi in Umbria (-4,6%), Sardegna (-4,3%) e Liguria (-3,3%). Tutti sono disposti a rinunciare agli asili nido e alle scuole d’infanzia, a prescindere che si tratti di strutture pubbliche o private.
A Torino le domande per il nido sono scese dell’11 %, a Treviso la Federazione italiana scuole materne denuncia che 3 mila bambini, su 27 mila della provincia, non frequentano la scuola dell’infanzia a causa dei problemi economici della famiglia. In Toscana per la crisi sono diminuite le domande. Tanti genitori, più di uno su cinque al Nord, rinunciano al posto che gli è stato assegnato o ritirano i figli perché non possono più pagare. Come è successo, nel 2013, a 1.104 bambini di Bologna.
«È un paradosso pensare che alle materne il posto c’è per quasi tutti, ma che le famiglie non ne usufruiscono perché hanno perso uno dei due stipendi e anche gli 80-100 euro del buono mensa sono diventati un lusso» afferma Aldo Fortunati, direttore dell’area educativa dell’istituto degli Innocenti di Firenze. «E questi sintomi di malessere purtroppo sono sempre più frequenti, destinati a aumentare. Anche perché i comuni hanno meno soldi per gestire i servizi e così tanti posti restano inattivi».
A Reggio Emilia in dodici anni sono stati creati quasi 1.300 posti in più nelle scuole d’infanzia. Se nel 2001 le frequentavano 95 bimbi su 100, oggi ci vanno in 86. «Eppure qui c’è un’altissima attenzione per l’educazione già dal Dopoguerra, quando in quello sfacelo generale genitori e operai hanno dato la priorità all’istruzione, costruendo pietra su pietra la scuola XXV Aprile» spiega l’assessore alla Scuola, Luna Sassi. «Investiamo il 16 per cento del Bilancio per gli alunni fino ai 6 anni, ma tanti neanche fanno domanda».
«Questa difficoltà crescente della famiglie è un campanello d’allarme — conferma Annamaria Palmieri, assessore alla Scuola di Napoli e membro della commissione Istruzione dell’ Anci — il calo di iscrizioni non coincide con un calo anagrafico: significa che il costo della scuola in alcune situazioni critiche diventa insormontabile. A Napoli, per esempio, l’alta disoccupazione femminile compensa la carenza di nidi. Ma sarebbe meglio il contrario: avere più nidi per far lavorare più donne ».
A Bolzano, lo scorso anno, più di 540 mamme, dice la Cgil, si sono ritrovate costrette a lasciare il lavoro per accudire i propri figli: «Così prendiamo una curva pericolosa che indebolisce le famiglie — continua Fortunati — perché non sarà facile per una donna costretta a stare a casa rientrare nel mercato del lavoro ».
Anche questo significa calpestare i diritti delle donne.