Inaugurata da dieci giorni la mostra Warhol a Palazzo Cipolla (via del Corso 320) fino al 28 settembre, in esposizione 150 opere della Collezione Brant Foundation, insieme alle foto di Terry O’Neill. L’allestimento segue approssimativamente l’ordine cronologico in un significativo percorso (non a caso Peter Brant era anche un’amico) dentro la pop art di Warhol e quindi dentro l’attualità, le atmosfere, le tendenze e le icone degli anni ’60, ‘70, ’80. Dentro al meccanismo mediatico, dal cinema hollywoodiano alla televisione, dai giornali alle riviste patinate, durante l’era della moltiplicazione delle immagini artificiali portata dall’ampia diffusione dei mass media, un numero sempre maggiori di esseri umani è a ripetuto contatto con una moltitudine di immagine artificiali. E’ proprio nella circolazione di queste immagini che si inserisce, fin dall’inizio, l’attività di Warhol (1982-1987).
Andrew Warhola studia al Carnegie Institute of Technology (oggi Carnegie-Mellon University) e già al terzo anno inizia a occuparsi, come art editor (e come Andy Warhol) dei giornali studenteschi. Nel 1949 dopo il diploma si trasferisce a New York, dove continua a lavorare con le immagini, nel settore del design pubblicitario. Nel corso degli anni cinquanta si afferma non facilmente ma abbastanza rapidamente nel settore del design pubblicitario, vincendo premi e riconoscimenti per la grafica e ottenendo un successo indiscusso nella commercial art (per approfondimenti biografici).
Negli anni Sessanta inizia la carriera come artista indipendente con la quale arriva anche «una morbida forma di ostracismo»(A. Boatto in Art Dossier) da parte dei contemporanei, anche artisti come Robert Rauschenberge, Jasper Johns facevano arte commerciale ma lo facevano per ‘sopravvivere’, tenevano a precisare, anche per questo usavano uno pseudonimo in queste occasioni. Warhol al contrario ci metteva la faccia entusiasta, e questo a molti non piaceva. La scena artistica statunitense, dominata dall’interiorità dell’espressionismo astratto e dell’action panting, non accolse a braccia aperte la trasformazione del lavoro di Warhol, da commerciale a POPolare, forse anche per l’inversione di tendenza operata dalla pop art: «Non mi ha mai imbarazzato chiedere a qualcuno, letteralmente: “che cosa dovrei dipingere?”, perché il pop viene dall’esterno(…)ogni volta che iniziavo un nuovo progetto: chiedevo a tutti quelli che vedevo che cosa pensavano che dovessi fare. Lo faccio ancora in questo senso non sono mai cambiato. Sento una parola, o fraintendo qualcuno, e mi viene una buona idea».
Gran parte della mostra (più della metà dei quadri) è dedicata ai lavori degli anni sessanta. Campbell’s Soup Can (Chicken With Rice), 1962, e Zuppa Campbell’s sopra la bottiglia di Coca (1962) opere che fanno l’effetto di moderni still leven (“natura immobile” più conosciuta come “natura morta”) di matrice pubblicitaria insieme a queste parole: «Quel che c’è di veramente grande in questo paese è che L’America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero (…)in Europa i re e l’aristocrazia hanno sempre mangiato molto meglio del popolo» (da La Filosofia di Andy Warhol).
I ritratti Liquorice Marilyn, 1962 (l’anno in cui si suicida), Liz (Early Colored Liz)” 1963, Blue Shot Marilyn, 1964,(con al centro della fronte di Marilyn il segno del proiettile che ferì l’artista in quello stesso anno) e gli Autoritratti, iconografie che caratterizzeranno la sua produzione fino alla agli anni ’80.
192 One Dollar Bills, 1962. A incipit delle tele seriali, nel quale i soldi trovano una nuova collocazione nello spazio, non solo uno dollaro sopra l’altro, ma uno affianco a l’altro hanno spazio in superficie :«quando ero bambino (…) Ciò che mi passava sempre per la testa erano le caramelle. Non appena sono diventato grande la fantasia è diventata: “fare i soldi per comprare le caramelle” perché crescendo si diventa più realistici. (Poi dopo il terzo esaurimento nervoso, quando non avevo ancora avuto le caramelle che mi aspettavo, cominciai a far carriera e cominciai ad avere sempre più caramelle»).
Le sue prime tele delineano quello che diventerà un ordinario repertorio iconografico di straordinaria quantità (complice la macchina) e varietà di soggetti e formati: dalle star del cinema ai fumetti, dalla gastronomia all’attualità: Green Disaster (Green Disaster Twice), Mrs. McCarthy and Mrs. Brown (Tunafish Disaster), 1963. Fanno di Warhol uno straordinario iconografo della sua epoca. David Bourdon, collezionista d’arte e amico («scettico intelligente») dopo averle viste: «bè mettiti nei miei panni: ti conoscevo come artista pubblicitario, e adesso sei diventato un pittore, però continui a dipingere soggetti pubblicitari. Francamente non so che pensare» .«Almeno non aveva riso» commenta Warhol in POPism: The Warhol ‘60s, 1980 (Tradotto in italiano POP, 2004), poiché molti avevano riso di queste prime tele. Sono immagini artificiali in cui significante e significato coincido con un’approssimazione criminale (se come disse Robert Delauny : «la fotografia è un’arte criminale»). Infatti il lavoro di Warhol è interessante non solo sul profilo artistico, in quanto pietra miliare della pop art europea, ma anche su quello socio-antropologico e meta-comunicativo, poiché i soggetti e i media usati sono rappresentativi di un’epoca, di una società, “U.S.A e getta” (scrive Boatto), che avrà larga influenza mondiale e nella quale anche «un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha bisogno ma che lui – per qualche ragione – pensa si una buona idea dargli».
Quello che, più spesso, fa l’artista è selezionare un’immagine tra la moltitudine di immagini artificiali , che i mezzi di comunicazioni di massa mettono a disposizione della società dei consumi e costumi U.S.A. Un’immagine, già vista, già consumata in ripetuti momenti,vista tanto costantemente da diventare “famigliare”. Perde d’impatto visivo, per una sorta di assuefazione da ripetuto contatto, sono immagini a cui la gente si sta abituando tanto da poter passare inosservate, viste ma non più guardate. Warhol sceglie (o crea) un’immagine e la copia grazie all’artificio tecnico, che si svela quanto basta per consegnare, per un momento ancora, l’immagine in questione, all’attenzione collettiva. Come? Ricomponendola meccanicamente, in effetti tutta la produzione di Warhol si sviluppa sull’utilizzo di media meccanici, mezzi tendenzialmente obiettivi: foto e poi pellicola (quando comincia l’attività di regista), ma la sua pittura rimane antinaturalistica. Il procedimento tecnico privilegiato dagli anni ‘60, oltre la fotografia, è la stampa serigrafica (tecnica di stampa su tessuto). La forza espressiva del colore è resa dall’inchiostro industriale, fotografico e tipografico, e visto che in pittura è il colore a modulare la luce, le inusitate sperimentazioni cromatiche di Warhol modulano la luce artificiale del flesh fotografico, mentre la composizione si muove più spesso in due direzioni:l’ isolamento dell’immagine o la ripetizione seriale.
L’ isolamento dell’immagine, su un fondo compatto, più spesso in posizione frontale (come per Liz e Marilyn) in cui la composizione risulta rigidamente definita da omogenee macchie di colore (ottenute dal processo di sovraesposizione della foto). Nei volti dei ritratti il trucco si fa brillante, un po’ pesante, tanto da richiama la maschera, in un volto ricomposto in maniera meccanica: “Eseguito automaticamente, senza l’intervento della volontà e dell’intelligenza individuale: esecuzione m.; da automa, in modo quasi involontario”. Ma del resto l’essere umano non è per lo più, un essere abitudinario? E ogni abitudine non è altro che un’azione ripetuta costantemente così che, alla lunga, diventa quasi automatica, un scontata routine, che riecheggia nella ripetizioni seriale consentita sempre dal medium meccanico. L’invadenza dell’immagine è manifesta e produce l’effetto di saturazione visiva. In Warhol l’immagine può essere ripetuta dentro la stessa tela come in Red Elvis, 1962, e 30 are better than 1, 1963, (dove il soggetto è la Gioconda). Oppure produce una serie, composta da diverse tele come per il bucolico Flowers, 1964, o Twelve electric chairs, 1964 nei quali il colore si esprime dirompente. «Perché più guardi la stessa identica cosa, più perde di significato e più ti svuoti e ti senti bene» ma certo appena viste, in serie poi, hanno un forte impatto visivo, considerato che i soggetti sono di dominio pubblico, tanto da essere dati quotidianamente per scontati, oltre ai fiori, la morte per esempio, tema che attraversa trasversalmente l’opera di Warhol e che ritroviamo nella serie Skulls, 1976 .
«David dice che in generale ero molto più socievole, più aperto e più ingenuo prima del ’64.”non avevi quello sguardo freddo, assente e vuoto che ti è venuto dopo”. (Ma allora non mi serviva ancora)». Quello sguardo, tendenzialmente nichilista, ha bisogno di nuove sperimentazioni per esprimere gli anni ‘70: Mao (5 tele ’72-‘73), Vote McGovern, 1972, Basquait, 1982, Be Somebody with a Body, 1985-86 segnano le tappe della mostra che portano alla piccola sala delle polaroid più di 50 foto (scattate negli anni ’70 e ’80) di personaggi famosi e di se stesso, anche en travestì (il trucco c’è e si vede). Dal ’72 la produzione di ritratti su commissione variava dai 50 ai 150 ritratti in un anno, e tutti dovevano munirsi di fototessera. Il primo piano cinematografico, si mescola(va) e confonde(va) con il mezzo primo piano del formato tessera, il mito e la mistificazione operanti sono mediati(ci) e manifestati.
La mostra si conclude con Last Supper (Black and White), Last Supper (1986) di spettacolari dimensioni, e con alcuni particolari dai colori brillanti, del resto Gesù popolare dal 30 d.c. nel ’73 diventa ufficialmente superstar al cinema). Gli anni ’80 aprono un nuovo ciclo per la pittura dell’artista pop, che si fa più controllata in una ricerca di eleganza formale. La collezione Brant, con particolare riguardo agli anni sessanta, riesce a rendere conto di oltre un trentennio del lavoro di Warhol «credo di avere una concezione molto approssimativa del “lavoro”, perché è mia convinzione che vivere sia già un lavoro, che non si ha sempre voglia di fare. Nascere è un po’ come essere rapiti. E poi venduti come schiavi. La gente non fa altro che lavorare. Il meccanismo è sempre in moto. Anche mentre dormi».
Roma, 28 aprile
La tela trema: Massimo Pasca e Antonio Pronostico, doppio live painting - NewsGO | NewsGO
9 Giugno 2014 @ 13:10
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